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“Legatela bene, asportiamo senza anestesia, e dopo la morte togliamo il resto.”
prosa [ ]
_ inverso _

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di [jacquelinemiu ]

2009-12-08  |     | 



Mi faceva stare zitta con una mano sulla bocca, premuta non con troppa forza per non soffocarmi del tutto, il mio viso era minuto e facilmente naso e bocca potevano rimanere imprigionati dentro quel palmo, che aveva il lezzo dell' olio del motore. Non mi faceva spogliare, no, gli bastava toccarmi con violenza come se dovesse liberare una mensola dalla polvere, ed in certi posti indugiava fino a quando il mio grido silenzioso gli arrivava nell’orecchio, allora, sul suo viso si dipingeva un risolino sardonico capace di spaventami molto di più di quanto già non lo fossi.
Avevo nove anni e mia madre mi avrebbe aspettato a quella dannata fermata del bus per parecchio tempo.
La casa aveva muri di cartone ed era sporca in un modo quasi disgustoso. Lui mi prese in braccio, mi sentivo molle come lo schifidoll ,che la mamma mi comprava in edicola dopo lunghe preghiere, perché io lo incollassi sui muri, pensando di dare vita ai mostri estinti; una bambola di pezza avrebbe avuto più forza di me in quel momento.
Mi levò le mutandine, e compresi che ero sdraiata a terra, perché le ossa della schiena toccavano il pavimento, non credevo a quello che mi stava capitando, mi stava leccando tutta, dalla punta dei piedi in su; le calze mi furono strappate, fino all’ombelico. Non parlava mai, ma era disgustosamente soddisfatto di quello che mi stava facendo, a volte la sua saliva mi restava copiosa sulle gambe, tanto da sentire i brividi di freddo, e sempre quel lezzo che accompagnava ogni suo gesto mi provocava tanto dolore quanto il peso del suo corpo sopra il mio. Le unghie delle mani le avevo spezzate nel grattare il parquet, dovevo ingoiare il mio dolore, per questo mi aveva imbavagliata e per questo persino le lacrime restavano negli occhi impedendomi di vedergli la faccia, ma dovevo fare i conti coi suoi grugniti, quelli da maiale sporco che si puliva i denti sui miei capezzoli doloranti per la crescita. Perché Dio non fa morire i bambini prima che capitino loro queste cose, ecco a cosa mi veniva da pensare, dove stava guardando Dio in quel momento, dove erano tutti i santi che a catechesi ci avevano insegnato i nomi, e dove s’erano nascosti gli apostoli coi loro bei discorsi?
Qualcosa mi stava rompendo le viscere, la mia carne tremava come se mi fossero venute le convulsioni, ogni tanto sentivo degli schiaffi in una parte del corpo che mi rifiutavo di ascoltare, non perché non sapessi quale essa fosse, ma perché supplicavo qualcuno nella mia mente, che mi aiutasse levandomi quel mostro di dosso, o magari sparandomi un colpo in testa per non capire cosa mi stava facendo e con quale crudeltà.
Mi ero fatta la pipì addosso ma nemmeno questo allontanò il miserabile dal mio corpo. Mi aveva legato sotto il tavolo come un cane, sempre col bavaglio sulla bocca ed una fascia molto stretta sugli occhi. Ero svenuta credo un paio di volte, sentivo l’odore del mio sangue che doveva essere ancora li, mescolato alla mia piscia. Quel giorno sperai, pregai di morire.
Non rividi più la luce, e intuivo che il mio carnefice aveva dei piani che non includevano solo la sua persona, la casa divenne frequentatissima da gente di cui ne ascoltavo i passi, che si avvicinavano al mio corpo, che mi giravano e mi palpavano sulle ferite ancora recenti.
“Si, potrebbe andare ancora bene.”, sentivo dire ad uno di loro che aveva un forte accento del nord.
“Non so mi, ghe bisogno di investi tutti sti danè, non che non ci siano, bada ben, ma mica da buttare via. L’affare si fa solo se resta viva fino alla fine.”
Il mio carnefice brontolava, dicendo che merce così non si trovava su tutte le strade, insomma potevo costare anche un milione per l’operazione che dovevo sopportare.
Volevo piangere, e loro mi stavano bruciando i capelli con l’accendino credo, sulle dita mi avevano messo una sorta di arnese di ferro che mi impediva di muoverle. I crampi allo stomaco ed alla vescica erano aumentati, ma questo non importava più a nessuno. Fui messa in un sacco, un sacco di tela in cui facevo fatica a respirare, e fui buttata su una macchina, che cominciò il suo viaggio quasi subito dopo.
Forse mi addormentai, nei miei sogni ero con la mamma nel letto, e aspettavamo entrambe la colazione che ci avrebbe portato papà, il mio papà che ha quanto pare non aveva il potere di liberarmi da quei demoni.
Fui svegliata da un calcio nella gamba, e trasalì per il forte dolore.
Mi furono tolte le bende, le manette, e tutti i vestiti. Ero in una specie di clinica, le mura erano belle azzurre e coi quadri appesi; nella stanza c’erano un letto, una sedia e quattro uomini vecchi che mi guardavano come si guarda un gattino nella vetrina di un negozio, ma a parlare fu il più anziano di loro.
“Adesso carina, ti corichi in questo letto e aspetti.”, la mano mi indicò che avrei dovuto farcela da sola, ma io ero troppo debole e caddi a terra.
“Mamma, dov’è la mia mamma?”
Non c’era più nessuno nella stanza, e la finestra era chiusa con una sbarra sebbene fuori si vedeva un sacco di gente trafficare avanti ed indietro.
Rimasi a terra per poco tempo. Arrivarono con una barella.
“Vi prego aiuto.”, e ricevetti un calcio in bocca. Mi buttarono sulla lettiga e mi portarono in un posto con la lampada e tanti, tantissimi macchinari. Loro parlavano anche se non capivo molto di quello che dicevano. Non riuscivo ad aprire gli occhi, ma sentì bene che avevano deciso di farmi qualcosa, qualcosa per cui avrei sofferto molto.
“Legatela bene, asportiamo senza anestesia, e dopo la morte togliamo il resto.”
Quando iniziò il dolore, compresì che c'era qualcosa dietro i miei occhi che mi faceva molto più male, e quando tutti i miei pensieri iniziarono a gridare, sapevo che non avrei più rivisto la mia mamma, ne la casa dove tutto era rimasto nel mio personale disordine.

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