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agonia Post Consigliato
■ Geremiade
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- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - 2004-07-17 | | Inserito da corina dragomir
Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
di che il cielo v'adorna, e della gioia che vereconde voi date alla terra, belle vergini! a voi chieggo l'arcana armonïosa melodia pittrice 5 della vostra beltà ; sì che all'Italia afflitta di regali ire straniere voli improvviso a rallegrarla il carme. Nella convalle fra gli aerei poggi di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte 10 limpido fra le quete ombre di mille giovinetti cipressi alle tre Dive l'ara innalzo, e un fatidico laureto in cui men verde serpeggia la vite la protegge di tempio, al vago rito 15 vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece dono la bella Dea che in riva d'Arno sacrasti alle tranquille arti custode; ed ella d'immortal lume e d'ambrosia la santa immago sua tutta precinse. 20 Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io pingo e spiro a' fantasmi anima eterna: sdegno il verso che suona e che non crea; 25 perché Febo mi disse: Io Fidia, primo, ed Apelle guidai con la mia lira. Eran l'Olimpo e il Fulminante e il Fato, e del tridente enosigèo tremava la genitrice Terra; Amor dagli astri 30 Pluto feria: nè ancor v'eran le Grazie. Una Diva scorrea lungo il creato a fecondarlo, e di Natura avea l'austero nome: fra' celesti or gode di cento troni, e con più nomi ed are 35 le dan rito i mortali; e più le giova l'inno che bella Citerea la invoca. Perché clemente a noi che mirò afflitti travagliarci e adirati, un dì la santa Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse 40 a ravvivar le gregge di Nerèo, apparì con le Grazie; e le raccolse l'onda Ionia primiera, onda che amica del lito ameno e dell'ospite musco da Citera ogni dì vien desiosa 45 a' materni miei colli: ivi fanciullo la Deità di Venere adorai. Salve, Zacinto! All'antenoree prode, de' santi Lari Idei ultimo albergo e de' miei padri, darò i carmi e l'ossa, 50 e a te il pensier: chè piamente a queste Dee non favella chi la patria obblìa. Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi, era ne' colli suoi l'ombra de' boschi sacri al tripudio di Dïana e al coro; 55 pria che Nettuno al reo Laomedonte munisse Ilio di torri inclite in guerra. Bella è Zacinto. A lei versan tesori l'angliche navi; a lei dall'alto manda i più vitali rai l'eterno sole; 60 candide nubi a lei Giove concede, e selve ampie d'ulivi, e liberali i colli di Lieo: rosea salute prometton l'aure, da' spontanei fiori alimentate, e da' perpetui cedri. 65 Splendea tutto quel mar quando sostenne su la conchiglia assise e vezzeggiate dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto, quante alla prima prima aura di Zefiro le frotte delle vaghe api prorompono, 70 e più e più succedenti invide ronzano a far lunghi di sé äerei grappoli, van alïando su' nettarei calici e del mèle futuro in cor s'allegrano, tante a fior dell'immensa onda raggiante 75 ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude le amorose Nereidi oceanine; e a drappelli agilissime seguendo la Gioia alata, degli Dei foriera, gittavan perle, dell'ingenue Grazie 80 il bacio le Nereidi sospirando. Poi come l'orme della Diva e il riso delle vergini sue fêr di Citera sacro il lito, un'ignota violetta spuntò a' piè de' cipressi; e d'improvviso 85 molte purpuree rose amabilmente si conversero in candide. Fu quindi religïone di libar col latte cinto di bianche rose, e cantar gl'inni sotto a' cipressi, e d'offerire all'ara 90 le perle, e il primo fior nunzio d'aprile. L'una tosto alla Dea col radïante pettine asterge mollemente e intreccia le chiome dell'azzurra onda stillanti. L'altra ancella a le pure aure concede, 95 a rifiorire i prati a primavera, l'ambrosio umore ond'è irrorato il petto della figlia di Giove; vereconda la lor sorella ricompone il peplo su le membra divine, e le contende 100 di que' mortali attoniti al desìo. Non prieghi d'inni o danze d'imenei, ma de' veltri perpetuo l'ululato tutta l'isola udìa, e un suon di dardi e gli uomini sul vinto orso rissosi, 105 e de' piagati cacciatori il grido. Cerere invan donato avea l'aratro a que' feroci: invan d'oltre l'Eufrate chiamò un dì Bassarèo, giovine dio, a ingentilir di pampini le rupi. 110 Il pio strumento irrugginia su' brevi solchi, sdegnato; e divorata, innanzi che i grappoli recenti imporporasse a' rai d'autunno, era la vite: e solo quando apparian le Grazie, i cacciatori 115 e le vergini squallide, e i fanciulli l'arco e 'l terror deponeano, ammirando. Con mezze in mar le rote iva frattanto lambendo il lito la conchiglia, e al lito pur con le braccia la spingean le molli 120 Nettunine. Spontanee s'aggiogarono alla biga gentil due delle cerve che ne' boschi dittei schive di nozze Cintia a' freni educava; e poi che dome aveale a' cocchi suoi, pasceano immuni 125 da mortale saetta. Ivi per sorte vagolando fuggiasche eran venute le avventurose, e corsero ministre al viaggio di Venere. Improvvisa Iri che segue i Zefiri col volo 130 s'assise auriga, e drizzò il corso all'istmo del Laconio paese. Ancor Citèra del golfo intorno non sedea regina: dove or miri le vele alte su l'onda, pendea negra una selva, ed esiliato 135 n'era ogni Dio da' figli della terra duellanti a predarsi; e i vincitori d'umane carni s'imbandian convito. Videro il cocchio e misero un ruggito, palleggiando la clava. Al petto strinse 140 sotto al suo manto accolte, le tremanti sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva! Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali forse eran tutti i primi avi dell'uomo! Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natìo 145 delirar di battaglia; e se pietose nel placano le Dee, spesso riarde ostentando trofeo l'ossa fraterne. Ch'io non le veggia almeno or che in Italia fra le messi biancheggiano insepolte! 150 Ma chi de' Numi esercitava impero su gli uomini ferini, e quai ministri aveva in terra il primo dì che al mondo le belle Dive Citerea concesse? Alta ed orrenda n'è la storia; e noi 155 quaggiù fra le terrene ombre vaganti dalla fama n'udiam timido avviso. Abbellitela or voi, Grazie, che siete presenti a tutto, e Dee tutto sapete. Quando i pianeti dispensò agli Dei 160 Giove padre, il più splendido ei s'elesse, e toccò in sorte a Citerea il più bello, e l'altissimo a Pallade, e le genti di que' mondi beate abitatrici sentìr l'imperio del lor proprio Nume. 165 Ma senza Nume rimanea negletto il picciol globo della terra, e nati alle prede i suoi figli ed alla guerra, e dopo breve dì sacri alla morte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il bel cocchio vegnente, e il doloroso 170 premio de' lor vicini arti più miti persuase a' Laconi. Eran da prima per l'intentata selva e l'oceà no dalla Grecia divisi; e quando eretta agli ospitali Numi ebbero un'ara, 175 vider tosto le pompe e le amorose gare e i regi conviti; e d'ogni parte correan d'Asia i guerrieri e i prenci argivi alla reggia di Leda. Ah non ti fossi irato Amor! e ben di te sovente 180 io mi dorrò, da che le Grazie affliggi. Per te all'arti eleganti ed a' felici ozi, per te lascivi affetti, e molli ozi, e spergiuri a' Greci; e poi la dura vita, e nude a sudar nella palestra 185 [sottentrar] le fanciulle onde salvarsi Amor da te. Ma quando eri per anche delle Grazie non invido fratello Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo cinto d'armonïosi antri a' delfini, 190 qui Sparta e le fluenti dell'Eurota grate a' cigni; e Messene offria securi ne' suoi boschetti alle tortore i nidi; qui d'Augìa 'l pelaghetto, inviolato al pescator, da che di mirti ombrato 195 era lavacro al bel corpo di Leda e della sua figlia divina. E Amicle terra di fiori non bastava ai serti delle vergini spose; dal paese venian cantando i giovani alle nozze. 200 Non de' destrieri nitidi l'amore li rattenne, non Laa che fra tre monti ama le caccie e i riti di Dïana, né la Maremma Elea ricca di pesce. E non lunge è Brisea, donde il propinquo 205 Taigeto intese strepitar l'arcano tripudio e i riti, onde il femmineo coro placò Lieo, e intercedean le Grazie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ma dove, o caste Dee, ditemi dove la prima ara vi piacque, onde se invano 210 or la chieggo alla terra, almen l'antica religïone del bel loco io senta. Tutte velate, procedendo all'alta Dorio che di lontan gli Arcadi vede, le Dive mie vennero a Trio: l'Alfeo 215 arretrò l'onda, e die' a' lor passi il guado che anc'oggi il pellegrin varca ed adora. Fe' manifesta quel portento a' Greci la Deità ; sentirono da lunge odorosa spirar l'aura celeste. 220 De' Beoti al confin siede Aspledone: città che l'aureo sol veste di luce quando riede all'occaso; ivi non lunge sta sull'immensa minïèa pianura la beata Orcomèno, ove il primiero, 225 dalle ninfe alternato e da' garzoni, amabil inno udirono le Grazie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Così cantaro; e Citerea svelossi; e quanti allor garzoni e giovinette vider la Deità furon beati, 230 e di Driadi col nome e di Silvani fur compagni di Febo. Oggi le umane orme evitando, e de' poeti il volgo, che con la lira inesperta a sé li chiama, invisibili e muti per le selve 235 vagano. Come quando esce un'Erinne a gioir delle terre arse dal verno, maligna, e lava le sua membra a' fonti dell'Islanda esecrati, ove più tristi fuman sulfuree l'acque; o a groelandi 240 laghi, lambiti di [sulfuree] vampe, la teda alluma, e al ciel sereno aspira; finge perfida pria roseo splendore, e lei deluse appellano col vago nome di boreale alba le genti; 245 quella scorre, le nuvole in Chimere orrende, e in imminenti armi converte fiammeggianti; e calar senti per l'aura dal muto nembo l'aquile agitate, che veggion nel lor regno angui, e sedenti 250 leoni, e ulular l'ombre de' lupi. Innondati di sangue errano al guardo delle città i pianeti, e van raggiando timidamente per l'aereo caos; tutta d'incendio la celeste volta 255 s'infiamma, e sotto a quell'infausta luce rosseggia immensa l'iperborea terra. Quinci l'invida Dea gl'inseminati campi mira, e dal gelo l'oceà no a' nocchieri conteso; ed oggi forse 260 per la Scizia calpesta armi e vessilli, e d'itali guerrier corpi incompianti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E giunte le Dive appiè de' monti, alla sdegnosa Diana Iride il cocchio e mansuete 265 le cerve addusse, amabil dono, in Creta. Cintia fu sempre delle Grazie amica, e ognor con esse fu tutela al core dell'ingenue fanciulle ed agl'infanti. E solette radean lievi le falde 270 dell'Ida irriguo di sorgenti; e quando fur più al Cielo propinque, ove una luce rosea le vette al sacro monte asperge, e donde sembran tutte auree le stelle, alle vergini sue che la seguieno 275 mandò in core la Dea queste parole: - Assai beato, o giovinette, è il regno de' Celesti ov'io riedo; a la infelice Terra ed a' figli suoi voi rimanete confortatrici; sol per voi sovr'essa 280 ogni lor dono pioveranno i Numi. E se vindici sien più che clementi, allor fra' nembi e i fulmini del Padre, vi guiderò a placarli. Al partir mio tale udirete un'armonia dall'alto, 285 che diffusa da voi farà più liete le nate a delirar vite mortali, più deste all'Arti e men tremanti al grido che le promette a morte. Ospizio amico talor sienvi gli Elisi; e sorridete 290 a' vati, se cogliean puri l'alloro, ed a' prenci indulgenti, ed alle pie giovani madri che a straniero latte non concedean gl'infanti, e alle donzelle che occulto amor trasse innocenti al rogo, 295 e a' giovinetti per la patria estinti. Siate immortali, eternamente belle! - Più non parlava, ma spargea co' raggi de le pupille sue sopra le figlie eterno il lume della fresca aurora, 300 e si partiva: e la seguian cogli occhi di lagrime soffusi, e lei da l'alto vedean conversa, e questa voce udiro: - Daranno a voi dolor novello i Fati e gioia eterna. - E sparve; e trasvolando 305 due primi cieli, s'avvolgea nel puro lume dell'astro suo. L'udì Armonia e giubilando l'etere commosse. Chè quando Citerea torna a' beati cori, Armonia su per le vie stellate 310 move plauso alla Dea pel cui favore temprò un dì l'universo . . . . . . . . Come nel chiostro vergine romita, se gli azzurri del cielo, e la splendente Luna, e il silenzio delle stelle adora, 315 sente il Nume, ed al cembalo s'asside, e del piè e delle dita e dell'errante estro e degli occhi vigili alle note sollecita il suo cembalo ispirata, ma se improvvise rimembranze Amore 320 in cor le manda, scorrono più lente sovra i tasti le dita, e d'improvviso quella soave melodia che posa secreta ne' vocali alvei del legno, flebile e lenta all'aure s'aggira; 325 così l'alta armonia che . . . . . . discorreva da' Cieli . . . . . . . . Udiro intente le Grazie; e in cor quell'armonia fatale albergà ro, e correan su per la terra 330 a spirarla a' mortali. E da quel giorno dolce ei sentian per l'anima un incanto, lucido in mente ogni pensiero, e quanto udian essi o vedean vago e diverso dilettava i lor occhi, e ad imitarlo 335 prendean industri e divenia più bello. Quando l'Ore e le Grazie di soave luce diversa coloriano i campi, e gli augelletti le seguiano e lieto facean tenore al gemere del rivo 340 e de' boschetti al fremito, il mortale emulò que' colori; e mentre il mare fra i nembi, o l'agitò Marte fra l'armi, mirò il fonte, i boschetti, udì gli augelli pinti, e godea della pace de' campi. 345 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E l'arte agevolmente, all'armonia che udiva, diede eleganza alla materia; il bronzo quasi foglia arrendevole d'acà nto ghirlandò le colonne; e ornato e legge 350 ebber travi e macigni, e gìan concordi curvati in arco aereo imitanti il firmamento. Ma più assai felice tu che primiero la tua donna in marmo effigïasti: Amor da prima in core 355 t'infiammò del desìo che disvelata volea bellezza, e profanata agli occhi degli uomini. Ma venner teco assise le Grazie, e tal diffusero venendo avvenenza in quel volto e leggiadrìa 360 per quelle forme, col molle concento sì gentili spirarono gli affetti della giovine nuda; e non l'amica ma venerasti Citerea nel marmo. E non che ornar di canto, e chi può tutte 365 ridir l'opre de' Numi? Impazïente il vagante inno mio fugge ove incontri grazïose le menti ad ascoltarlo; pur non so dirvi, o belle suore, addio, e mi detta più alteri inni il pensiero. 370 Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato ah da gran giorni omai profughe in terra alla Grecia vi tolse, e se l'Italia che v'è patria seconda i doni vostri misera ostenta e il vostro nume oblia? 375 Pur molti ingenui de' suoi figli ancora a voi tendon le palme. Io finché viva ombra daranno a Bellosguardo i lauri, ne farò tetto all'ara vostra, e offerta di quanti pomi educa l'anno, e quante 380 fragranze ama destar l'alba d'aprile, e il fonte e queste pure aure e i cipressi e segreto il mio pianto e la sdegnosa lira, e i silenzi vi fien sacri e l'arti. Fra l'arti io coronato e fra le Muse, 385 alla patria dirò come indulgenti tornate ospiti a lei, sì che più grata in più splendida reggia e con solenni pompe v'onori: udrà come redenta fu due volte per voi, quando la fiamma 390 pose Vesta sul Tebro e poi Minerva diede a Flora per voi l'attico ulivo. Venite, o Dee, spirate Dee, spandete la Deità materna, e novamente deriveranno l'armonia gl'ingegni 395 dall'Olimpo in Italia: e da voi solo, né dar premio potete altro più bello, sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso. |
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