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- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - 2006-09-25 | |
LA VALIGETTA NERA
Sono le otto. Fabio si avvia come ogni giorno verso la fermata dell’autobus. Lavora tanto questo periodo e si sente stanco, sente che gli manca l’aria e li piacerebbe tanto sedersi, almeno per un minuto. Si sente la testa pesante e gli li viene di sdraiarsi per terra. A questo ora, alla fermata numero 1062 vede sempre la stessa gente, che sembra un esercito di robot programmati a fare le stesse cose all’infinito. “Ed io, sono una di loro”, pensa per se, mentre l’autobus stava per arrivare. C’è tanta noia sul tragitto casa- lavoro, lavoro- casa. E poi, nelle giornate grigie, come questa, la pioggia allaga i cuori di malinconia, di quel sentimento affannoso di un incubo spezzato in mille pezzi che si annidano veloci n elle nostre vite. La pioggia scorreva come delle lacrime grosse di nuvole tristi che si aggrappano ai finestrini in un ultimo tentativo di sopravvivere, prima di sparire sotto le ruote dell’autobus. Guardando la pioggia non mi sono neanche reso conto che la gente mi aveva spinto quasi davanti alla porta che si apre davanti a me come una voragine pronta ad inghiottirmi. Senti un dolore vorticoso nella testa, un dolore che mi risucchia le ultime forze. ” Vuole scendere”, sento una voce che mi rimbombava nelle orecchie. Mi tirai indietro spaventato, sentendo dietro di me tutte quelle voci come un coro di condanna.”Allora, cosa stai a fare davanti alla porta, idiota”. Le loro parole mi attraversarono la testa come delle lame affilatissime, sentivo come tanti pensieri mi affollano la testa, opprimendomi il cervello che stava per esplodere in un urlo di rabbia, trattenuto all’ultimo da un’onda fredda chi mi aveva fatto surgelare ogni parola sulle labbra. Sentivo che mi mancava qualcosa. Era la mia valigetta, il mio lavoro di mesi e mesi di notte insonne il mio tesoro, con tutti i progetti che fra due giorni dovrei presentare davanti a dei clienti importanti…. Sentivo come il sangue mi invadeva il cervello, come un torrente impazzito. La vita mi faceva tanti dispetti, ma questo sarebbe troppo. Ripercorri velocemente tutti i miei movimenti prima di uscire dal ufficio, fino ad adesso e non riuscivo ad immaginarmi senza quella valigetta nera in cuoio che era il mio bene più prezioso. C’erano dentro tutte le mie giornate soleggiate passate in quella stanzetta piccola e buia, che i miei colleghi chiamano ufficio, tutte le mie notti in bianco e tanti anni della mia vita. Tutti gli altri pensieri mi si cancellarono in quel istante, mi sembrava essere da solo sull’autobus, io e la pioggia che sbatteva contro i finestrini come uno strillo angosciante. Mi guardai intorno, ma della mia valigetta, neanche traccia. Camminavo da una parte all’altra dell’autobus, agitato come un mare in tempesta. Sentivo come tutte le mie paure mi assalivano, mi ridevano dietro come delle belve che si preparavano per il pranzo, davanti ad un cerbiattolo indifeso. La gente mi guardava strano, sentivo i loro pensieri schiacciandomi la schiena sempre di più come un peso che aumentava man mano che passavo davanti ad altre persone. Erano tutti seduti lì tranquilli ed io gli invidiavo, gli volevo chiedere se hanno visto la mia valigetta nera, ma le parole mi rimanevano incastrate fra i denti. Mi sentivo annullato, insignificante, come un chicco di grano in una casetta piena di meloni. Provo a sedermi, ma fino ad arrivare al sedile mi sembra di aver fatto un salto nel vuoto. Sudavo freddo e mi sentivo le mani più bagnate della pioggia. La mia valigetta nera mi fissava il cervello come un chiodo martellato al lungo. Avevo pensato ad immaginare la furia del mio capo, le facce inespressive di quei clienti che non vedevano l’ora di analizzare i miei progetti. “Fogli bianchi riempite di figure attorcigliate”, pensai. C’era troppo silenzio, non sentivo neanche più la pioggia, tutte quelle voci una sopra l’altra avevano cessato di invadermi la testa. In quel momento senti una voce che mi disse. “Signore siamo arrivati a capolinea, se non ha voglia di farsi un altro giro assieme a me, dovrebbe scendere”. Aprii gli occhi, e vidi l’autista, con la faccia rossa e tonda, guardandomi molto divertito. Mi avviai verso l’uscita, tirandomi dietro il braccio destro, come un peso che non riuscivo a sostenere. Grondavo di sudore, e fuori sentii il vento, ballandomi nelle orecchie come un rumore sordo di un vecchio violino. Mi fermai davanti al portone di casa per cercare le chiavi, e guardai sorpreso la mano destra dalla quale appendeva incatenata la mia valigetta nera in cuoio. “Quanto sono felice”, urlai e subito vidi apparire alle finestre le stesse testoline curiose, sempre in agguato, dietro le tende. Non trovavo le chiavi, né quelle di casa, né quelle delle manette, ma chi se ne frega, avevo la mia valigetta nera, e questo mi bastava. |
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